mercoledì 28 gennaio 2009

Si è perso il senso della neve (del 23 gennaio 2009)

Carissimi
perdonate la mia latitanza anche al telefono, ma sono stata sequestrta in casa sia nella men te che nel corpo. Iniziamo dal secondo, che è sempre più prosaico. Già è brutto beccarsi l'influenza, quando stavo così abbastanza bene da aver coinciato ad andare in palestra; ma è ancora peggio il fatto che si sia fatto vivo l'elettricista dopo ben otto mesi che lo aspettavo per rifare l'impianto elettrico ormai a rischio della casa. Da una settimana sto subendo, oltre alla febbre e disturbi vari, anche il rumore di trapani e martelli per più ore al giorno. Oggi è il primo giorno che trovo una fuggevole forza di mettermi al pc, ma ancora non trovo quella di riaccendere il telefono. Se questo dipenda dalla mia testa o dal mio fisico non saprei dirlo. Di certo ho passato giorni a non racapezzarmi più, a fare conti che non mi tornavano (anche a livello non metaforico). Ora sto cercando di arrampicarmi fuori dal buco nero di questa settimana e sento che già vedrò uno spiraglio di sole quando l'elettricista si toglierà dai piedi. Possibile che arroganza e avidità siano ormai trasversali ad ogni "mestiere-professione"? Saranno ben utenti di qualcosa anche questo che infliggono le loro prepotenze all'utenza, no? Sono soltanto i poveri, i malati, i pensionati, i disoccupati, gli abbandonati, i senza casa che non possono rivalersi su alcuno più in basso di loro? Mi preoccupa questa omologazione nell'atteggiamento prevaricatore di chi ha tanto o qualcosa nei confronti di chi ha meno o peggio niente. Mi allarma questo difendere - in genere con la veemenza che giunge al gridare - le proprie ragioni, dando per scontato che si troverà comunque un appoggio... ricordate l'imbecille in chemio che diede ragione all'infermiera disattenta e cialtrona? L'onda, solo l'onda ormai sembra contare, non le gocce che sono cadute dal cielo per formarla. Si è perso il senso della neve: nessun fiocco è uguale all'altro, ma infine si forma una coltre omogena a proteggere i frutti della terra. Nell'incalzare dei cavalloni si urla, con la neve si tende a parlare sottovoce e si apprezzano i silenzi.
Torno a letto, perché sta arrivando l'elettricista.
Vi abbraccio
Adriana

NO, cinica no

Ormai è quasi l'alba, ma dopo la mail che vi ho scritto (quella subito prima di questa), non riesco ad andare a dormire. Ho ripensamenti. Mi chiedo se non sono troppo crudele n el descrivere quanto di caricaturale esiste nella gente. Mi chiedo se non sia frutto di ore di promiscuità forzata in luoghi dove ognuno maschera come può le proprie angoscie.
Ora ripenso, in sala attesa, a quel marito-paziente che si è allontanato quando i discorsi sulla durata della malattia si sono fatti pesanti, e lui era lì solo per un controllo, ma quando è tornato la moglie l'ha accolto dicendo: "Sei di nuovo stato al gabinetto?". O ad un altro marito che accompagnava la moglie-paziente, ma il quale dopo soli 5 minuti le ha chiesto se scendeva con lui al bar a prendere qualcosa. "Ma se ho ancora capuccio e cornetto sullo stomaco" gli ha risposto, senza capire che lui voleva solo allontanarsi da quella stanza opprimente.
Ripenso anche a quella giovane donna (una rarità) in sala chemio, assistita da un padre dignitoso, ma con gli occhi dolenti. E lei che si è inserita in un breve lasso di tempo in tutto quel becerare sanguinolento per dire: "Non mi è sembrato vero quando mi hanno lasciato per un mese intero senza terapie. Sono uscita di casa, ho rivisto gli amici, ho perfino fatto un piccolo viaggio. Mi era sembrato di tornare a vivere".
No, non voglio diventare cinica. Ma voi pensate quanto può darvi fastidio una persona che, quando occasionalmente la sentite, non fa che parlarvi delle sue magagne, magari per mezz'ora. Moltiplicate queste persone per 60 e per 5 o 6 ore. E ascoltate i loro orrori che possono diventare i vostri e che vi ingroppano la gola di domande. Ma poi, quando entrate da chi vi potrebbe dare o vi aspettereste risposte, vi sentite al massimo chiedere: "Come si sente?", senza nessun incoraggiamento ad avere una risposta che non vada oltre: "Abbastanza bene, grazie". Con tutte le domande che si prosciugano in una sola, perché sapete già la risposta. "Come sta andando il mio cancro?". "Non si può dire, per nessuno è uguale". Ovvero dovrai essere tu, sei hai la lucidità per farlo abbastanza a lungo, a capire quanto e come ti resta da vivere.
Non voglio essere cinica, ma poi la mediocrità di ciò che sta intorno nel pronto-soccorso alla "vita" la trovo ogni volta all'uscita dell'ospedale. Fronte strada ci sono, piccoli e squallidi come armadi polverosi: un negozio di articoli sanitari, uno di pigiami, un esercizio di pompe funebri e una fioreria. Al cancello di un'abitazione privata ci sono da mesi due fiocchi rosa tutti anneriti dallo smog: in uno c'è scritto Beatrice, nell'altro Madalena (con una sola d). Le gemelle ormai saranno come minimo all'asilo... Ma il fronte strada continua a sbatterti davanti agli occhi questa istantanea immutabile, mescolando nascita, morte, accessori intercambiabili sia all'una che all'altra come fiori, pannolini, stampelle o casse da morto. E la vita ti sembra chiusa in minuscoli capitoli rarefatti nel tempo. Allora guardo l'aiuola già ben potata e pronta per le prime gemme. Non sarà mai uguale a se stessa.
Nuovamente un abbracio, mentre già sento gli uccelli cantare al primo schiarire della notte.
Adriana

Dove si curano quelli con la faccia da ricchi?

Carissimi,
eccomi qui. Ieri ho fatto la seconda terapia, per la quale nutrivo più timori rispetto alla prima, perché pare fosse quella più decisiva per capire come l'avrebbe accolta il mio corpo. Invece sono piuttosto soddisfatta: sono passata dalla parainfluenza naturale della scorsa settimana a quella indotta dal farmaco. Quindi solite cose: stanchezza, dolori articolari, un po' di febbre. Ma meno abbattuta, perché certi altri problemi si sono chiariti. Siccome questo è il periodo in cui un mucchio di gente sta così - anzi anche ben peggio a causa dell'Australiana - mi sento "normalizzata". Mi sento pure fortunata rispetto ad altri pazienti sottoposti al mio stesso farmaco e che ieri parlavano di 38-39 di febbre, sfinimento, palpitazioni e chi più ne ha più ne metta.
Ho anche riferito all'oncologo che la cosa più curiosa accadutami durante la prima somministrazione sono stati due giorni di fame tormentosa, che aveva cominciato a scatenarsi già dopo un'ora dall'inizio della flebo... non ricordo se ve ne avevo scritto. I miei sospetti erano caduti sul cortisone e l'oncologo me l'ha confermato, perché ora me ne fanno una dose doppia rispetto a quello di quando facevo la chemio. Probabilmente era andato a disturbare l'area del cervello che presiede alla sazietà. Io stessa capivo che si trattava di "falsa fame" e quindi per non finire ingolfata ho alleviato questo tormento che mi faceva perfino digrignare i denti mettendomi a portata di mano ortaggi crudi e duri da sgranocchiare (carote, finocchi e rapanelli). Di grande aiuto anche chewing alla menta senza zucchero. Passate l'informazione se conoscete qualche paziente a cui potrebbe essere utile.

Chiudo questo bollettino sulla mia salute, perché non tutti avranno il tempo o l'interesse di leggere le mie "cronache" seguenti, con un ringraziamento per quanti hanno partecipato - facendomi visita durante le feste natalizie - all'iniziativa pro Emergency "Tre miei libri a scelta per 10 euro". E' stata raccolta la più che decorosa cifra di 250 euro che oggi (non sto a spiegarvi i complicati motivi del ritardo) ho provveduto a versare.

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO

Capisco che sono arrivata ad un punto in cui mi devo sorvegliare attentamente, anche se so che 30 anni di mestiere mi hanno ben educata al miglior grado di obiettività possibile; tuttavia, nel raccontare il fatti, c'è sempre il rischio constatato in molti miei colleghi, di scivolare progressivamente col tempo a) dal sagace e benevolo sorriso dell'umorismo e dell'autoironia, b) alla pungente ironia rivolta solo agli altri, c)all'acidità zitellesca, d) al feroce sarcasmo, al volgare livore, e) alla rabbia dissennata. Più sfumature intermedie e variamente mescolate da cui nessuno è esente finché non raggiunge l'Illuminazione. Conscia che pure con studi zen non sono giunta a questa meta, spero di non darvi l'impressione di essere arrivata al punto c), con la seguente cronaca che vi dipinge le ore che ho passato ieri in ospedale, dalle 11.30 alle 16.30 (fino alle 13 per la visita; mezz'ora in attesa di una poltrona in sala chemio; il resto sotto flebo con annessi e connessi)... sempre meno delle 7 ore dell'ultima volta, in cui la flebo è durata oltre quattro ore. Insomma, tante sono le ore ed inevitabilmente da passare con "varia umanità".

Banco accettazione.
Non è il personale che manca, ma l'organizzazione. Nel senso che le tre o quattro persone ammassate dietro al banco sono tenute a fare di tutto e secondo un "modus operandi" del tutto individuale. C'è un solo computer, ma non ho ancora capito a cosa serva, visto che poi la base è cartacea, esempio cartelle cliniche impilate in modo misterioso, farcite di annotazioni su post it incollati sulla plastichina trasparente esterna, a cui vengono affidate numeri di telefono, indicazioni a quale oncologo devono essere dirottate, entro che data richiamare il paziente, ecc. Ovviamente gestite a più mani e secondo solerzia, precisione o fantasia delle stesse. Che, in tutta onestà, direi che non vengono a mancare, se non con grande spreco di energia.
Poiché il paziente non viene accettato su appuntamento, ma solo genericamente dalle 7.30 "in là", non ho ancora avuto modo di capire, ed è passato quasi un anno di frequentazione, se sia meglio presentarsi alle 8 (col risultato di aspettare in prima posizione i medici che comunque non arrivano prima delle 10-11 perché hanno anche i pazienti ricoverati da seguire); se è meglio alle 11 (ma a quel punto si sono ammassati i pazienti del teorico primo turno con quelli del secondo); se è meglio alle 12, ma lì si va ad incastrare la pausa pranzo dei medici. Insomma è meglio abbandonarsi alla pazienza della completa casualità. Ma la casualità fa incorrere anche in un altro rischio. Al banco di accettazione - l'ho scoperto dopo molto tempo dopo - la cartella clinica non è assegnata ad un "tuo" oncologo, col suo nome scritto sopra, ma al "chi c'è, c'è", eccetto per quelli per cui il primario raccomanda la propria presenza. Cioè i neofiti o i cronici. Infatti quando arrivi e dici: "Io sono Reginato, cartella clinica n..., sono qui per la terapia", mi consegnano un post it con su scritto, ad esempio, 12 (posizione di attesa) rosso. Ci sono anche il verde, e il giallo (mi pare), cioè il numero corrisponde alla privacy di chiamata del paziente e il colore alla privacy di prestazione dell'oncologo, in quanto nessuno ti chiede se preferisci l'uno o l'altro, semplicemente ti sbattono dove la fila è più breve. Col tempo abbiamo capito che il colore blu è quello del primario e guardiamo tutti con invidia quelli che vengono chiamati con questo colore. Col tempo abbiamo capito che potevamo anche - al banco di accettazione - esprimere una preferenza di nome-colore, indipendentemente dalla fila, per sentirsi invariabilmente rispondere: "Se ha la pazienza di aspettare". Al che uno davanti a me si è messo a ghignare e a risposto: "Qui non facciamo altro che aspettare". Infatti, io ho chiesto espressamente dell'oncologo con cui - pur con la mia rampogna - mi sembrava di aver stabilito un contatto, dopo la terza volta che l'incrociavo. "Scenderei a prendere un caffé - ho detto con molto garbo - se mi dice quanti pazienti ho davanti". "Uno solo, ti conviene aspettare". Ho aspettato un'ora e mezza e ho fatto esercizio zen dicendomi: " Anch'io l'ultima volta ho fatto aspettare più del dovuto quelli che erano dietro di me perché dovevo sfogarmi, ora non mi posso lagnare se l'oncologo è più zelante!"
In verità la visita è rientrata nei parametri consueti. O è timido (dicono così anche del primario); o l'ho più spaventato che istruito; o continua a comportarsi da cortese macina-pazienti. Le due colleghe, invece, le vedresti bene ad agitare le chiavi in possesso delle secondine. O a prenderti le impronte digitali.

LA SAGRA DELLE CHIACCHIERE

E' difficile riuscire a leggere nella sala di attesa.
Il via vai te lo devi aspettare, la promiscuità di sternuti e tosse anche; su chi ha inventato i "posti a sedere per comunità" e poi li ha rifilati nei reparti ospedalieri dove i pazienti sono già torturati per lunghe ore di attesa dai propri mali, posso solo dire che Torquemada mi fa apprezzare il detto (credo di Mark Twain): "Meglio i cattivi che gli imbecilli, almeno i primi ogni tanto si riposano".
Ma è vero, sto diventando acida come una zitella: in realtà la sala d'attesa è ornata di quadri gradi quadri ad olio (e riparmio il giudizio sulla qualità dell'artista che in nessun altro posto li avrebbe potuti donare), nonché di un numero esorbitante di piante e di bonsai poste sul già esiguo banco dell'accettazione, quindi rendendo difficile il contatto. Siccome non posso pensare alla totale imbecillità nella gestione di questo reparto, suppongo che il televisore megagalattico appeso ad una parete e che mai ho visto acceso (forse una volta e dai pochi beneficiati nel braccio corto della L in cui si snoda la stanza) sia il regalo di un paziente che si è creduto guarito dopo un paio d'anni di cure e che adesso era lì magari seduto vicino a me dopo 12 anni. E già, perché continuano a dire che di cancro si guarisce, ma nessuno ti dice per quanto. Nelle mie trasmigrazioni fra chemio e radio ho incontrato gente in trattamento come me, ma molta di più in recidiva, chiamiamola in "convivenza" con il cancro. Quindi in convivenza con la struttura e sempre più grata a quella struttura. Giustamente. Ma anche sempre meno critica nei confronti del servizio - extraterapeutico, non umano - che offre. Dopo 8, 10, 13 anni che hai il cancro cosa puoi chiedere se non: "Continua a farmi vivere?". Che ti frega delle attese, dell'arroganza, delle scomodità, dei silenzi, della gentilezza data goccia a goccia, se non per avere quella vita "goccia a goccia"?

Dialoghi nella stanza di attesa, quasi tutti in dialetto, ma io non lo lo scrivere.
"Lei che numero ha?"
"Ho il blu, perché vado dal primario"
Venerazione.
"Io - ma è una moglie che parla, perché il marito è lì con l'aria dello sconfitto negli occhi - ho il giallo, ma mi hanno detto che semmai potro vedere il primario. Ma lei come mai va dal primario? Perché sono ormai tre anni che mi curo e adesso mi vuole vedere per un controllo"... trapela il suo orgoglio. Ma un altro la vuole battere: "Se è per questo anch'io ormai vado solo dal primario, sono in cura da lui da 12 anni".
Attimo di abbattimento. Il marito avvilito si alza ed esce, senza una parola. "E' sempre così stanco...". "Non lo dica a me - interviene un'altra - ma io ho deciso: faccio solo quello che mi sento". "Anch'io - conferma un'altra ancora - ma se solo se non c'è niente da fare, altrimenti non mi tiro indietro". Arriva una signora in carrozzina, accompagnata dalla figlia. Si aggrappano alle riviste sgualcite. La madre vuole un libro di cucina regalato da un numero di rivista tre mesi fa. La figlia annota scrupolosamente e le assicura che chiederà informazioni. Perché questo atteggiamento amorevole, che già vedo qui dentro, puzza di crisantemi? Per questo non voglio che nessuno mi accompagni? Preferisco camminare sui sassi che sui petali sparsi. Arriva un ex compagna di scuola della figlia amorevole. Si riconoscono, si abbracciano con affetto. Lei, la compagna, sembra più giovane, ma è chiaramente una paziente. E' sui 40 anni, portati da ragazzina, visto che dichiara che sua figlia ha 21 anni. Dapprima noto che, pur camminando molto eretta, e in un certo modo flessuosa, ha le anche troppo rigide. Per questo il petto è spinto così in fuori. Poi ascolto: è stata operata al seno 15 anni fa. La metastasi ha attaccato prima le ossa del bacino. Poi ha avuto un incidente con un colpo di frusta e questo ha precipitato le cose. Ma ride e dice: "Sono ancora qui e sento che posso restarci ancora". "Questo è vero, - aggiunge un altro che ha una pancia chiaramente piena liquido - mi accontento di se vado avanti così. Mica è male..."

Dialoghi nella stanza chemio
Posti a caso, secondo la disponibilità, come raccontavo l'altra volta. Due soli i lettini, altre poltrone scomodissime, due senza poggiapiedi. Stavolta, onde evitare questioni, aspetto che se ne liberi una col poggiapiedi. Arriva una donna di età indefinibile: 30, 40, 50. Ha un ventre enorme, chiaramente piena di liquido e paziente pressoché terminale. Cammina a fatica, con un bastone, e sostenuta da una parente. E ha bisogno di camminare perché spesso durante la flebo deve andare ad urinare. Ma cazzo, almeno uno di quei carrellini con le ruote e il manubrio non può essere messo a dospisizione, visto che in una normale carrozzina non ci entrerebbe? No, le tocca pure sorbirsi la poltrona, dove neppure un cuscino dietro la schiena le dà sollievo all'ingombro della pancia, con il diaframma che spinto verso l'alto le impedisce la respirazione. Si lamenta, povera crista, ed ha ragione. Infine la fanno uscire. La ritrovo ore dopo sulla stretta barella incassata al posto dell'armadio a muro nel corridoietto di servizio delle infermiere dove io vado a farmi mettere e togliere l'ago nel port.
Nel frattempo mi sono cuccata la signora apparentemente in florida salute (ma cosa le mettono in vena?) che dall'altra stanza dove bombarda una tv senza che nessuno segua un programma si è voluta spostare in quest'altra, sedendosi vicino a me, perché all'altro angolo della stanza c'era sul lettino comodo, dove ci sarebbe dovuta stare quella col pancione, un'altra pimpante amica - gialla come un crisantemo - con cui voleva intrattenere conversazione. Naturalmente ha sempre parlato, da un capo all'altro della stanza, solo quella che aveva più fiato. Per soli tre quarti d'ora per fortuna, perché era alla fine della chemio. L'altra non rispondeva anche perché fose era stata colpita - come me la vostra scorsa - all'area della sazietà, in quanto non ha fatto che mangiare prima pane e uva e poi pane con le noci. In tutta onestà si tupiva che i suoi trigliceridi fossero alle stelle, ma mi sembra irrilevante rispetto allo stato del suo fegato (entrambe comunque avevano abbandonato le tette da un pezzo). La prima, era così insabile nel suo esternare un mare di cazzate, che ha chiesto ottenuto che abbassassero la musica classica della filodiffusione, adducendo che le batteva sul cervello. Senza tenere conto che stava spolpando quello degli altri. Ma non di tutti, naturalmente. C'è chi si è unito alla conversazione parlando dei piatti preferiti e disquisendo se fosse meglio lo spezzatino d'asino o di cavallo. Io, per sfiga mia, stavo disperatamente cercando di concentrami su "Le metamorfosi" di Apuleio (che vi assicuro libro piacevolissimo) ed ero proprio al punto in cui lo sfigato viene tramutato in asino e comincia subirne di tutti i colori (ciò mi ricorda la sala di attesa). Quindi mezzo intontita dal valium, e forse non centravano i farmaci, mi stava venendo il vomito a sentir parlare di queste bestie su quando era meglio macellarle, quali le parti migliori, e come cucinarle.

MA DOVE VANNO A CURARSI I RICCHI?

Riflessione di ieri.
Se avessi avuto l'aspirazione a fare la "scalatrice sociale", credo che anche solo grazie alla mia professione qualche gradino in più l'avrei fatto. Io invece ho scelto l'amicizia disinteressata, senza mai pormi un problema di "classe". Però una pulce nell'orecchio mi è stata posta da un'amica di questa mailing, quando ha comentato il mio racconto sullo sfogo con l'oncologo dicendomi: "Ma Berlusconi dove è andato a farsi curare il suo cancro?". Onestamente non lo so. Ma suppongo che per i super ricchi e potenti come lui ci siano circuiti a noi inimmaginabili, quin di neppure mi pongo il problema. Tuttavia, insistendo sul fatto che non voglio passare per "classista", ma essendo ormai da un anno inserita in questo "circuito", davvero mi chiedo dove vadano a curarsi non dico i Berlusconi o, al limite, l'alta borghesia. Ma la medio o la medio.alta, dove va? Intendo quelle donne che vedresti sempre bene anche col berretto da sci calcato in testa con i capelli mesciati in giusta misura che escono aggraziati giusto intorno al collo o alle guance; quelle per le quali le rughe sono segni di espressione su un viso vivace; quelle con la pelliccia e le scarpe la ginnastica; quelle che adorano la madre ma non sono mai pallide; quelle che il taglio corto le fa sbarazzine e sentire come nuove; quelle che parlano dialetto padovano come se fosse la Divina Commedia; quelle che se sono sovrappeso è perché si ingozzano di bigné nella pasticceria di moda ma non di pasta fatta in casa; quelle che hanno avuto l'appendicite e un'influenza clamorosa... E i loro compagni? Quelli con i capelli né lunghi né corti, né troppo curati nel taglio perché farebbe troppo... Quelli col maglioncino firmato e i pantaloni lisi di velluto a coste; quelli con l'eterna sciarpina al collo anche d'estate; quelli con gli occhialetti a mezzaluna anche se non servono; quelli che vanno ancora sulle piste nere da sci come quando avevano vent'anni di meno; quelli che parlano padovano come se avesseri i coglioni in bocca; quelli che invece che camminare con spalle incurvate in avanti hanno il basso bacino sparato in fuori...
Ma dove vanno a curarsi dal cancro quelli che per passare le tante ore di attesa (ma forse non è il caso loro) hanno fra le mani un libro?
Io vedo intorno a me pazienti "nazional-popolari", al massimo colgo il sopraciglio arrogante e condiscendente della piccola commerciante, o il fare sbrigativo dell'ex impiegato alle ufficio imposte, nella più esecrabile delle ipotesi. Ma in genere vedo gente come e voi, più o meno simpatica, invadente e acculturata (questo magari meno) come me e voi. Ma dove sono quest'altri? Quelli che stanno fra noi e i veri privilegiati? Possibile che sono l'unica bestia rara ad usare sia il "lei" che la lingua italiana? Ma non è neppure questo che mi preoccupa, se sono certa di essere curata comunque bene e con i riguardi che mi spettano. Ora invece mi sta venendo il sospetto che, trascinata da un'onda che non ho saputo gestire - forse perché da sola, forse perché non consigliata - mi sono infilata infilata in un "girone" che forse non coincide con il meglio che potevo permettermi. E mi sento colpevole nel pensare questo, perché nonstante le critiche, voglio ancora pensare che il Veneto sia un centro di eccellenza per la medicina, però mi pungola anche questa curiosità: dove sono quelli diversi da me? Dove si sono curati, fra i morti più recenti, non dico Paul Newman o Mino Reitano? O, più banalmente, il professore universitario? Mica che loro siano finiti meglio di me... mi punage solo la curiosità di sapere se ci sono strutture sconosciute a cui loro accedono e io no. Dove sono, e sicuramente ci sono, posti in cui - comunque ti toccherà morire - ma almeno su una poltrona col poggiedi. Vuoi vedere che esiste una quarta dimesione per curarsi (e su una quinta o una sesta non ho dubbi), ma di cui io non conosco l'esistenza? Dove si arriva solo per passaparola fra quelli del "giro giusto"?
Ancora. Dove sono i giovani? Intendo dire quelli intorno ai 40. Eppure si sente parlare di molti giovani, e giovanissimi, malati di cancro. Ma muoiono così in fretta da non riuscire neppure a vederli nelle strutture di cura? O anche per loro c'è un altro "circuito"?
E per noi, non più giovani, non con la faccia da ricchi, senza un briciolo di potere c'è solo la via della "standardizzazione", della "sperimentazione", dell' "accondiscendenza"? Siamo solo numero da statistica - nel bene e nel male - mentre gli altri assurgono a "casi" e sfide mediche?
"Ho ripreso ad andare in palestra" ho detto all'oncologo. Non ha neppure alzato la testa dalle scartoffie per rispondermi. Mi sarebbero bastati un sorriso o una botta d'incoraggiamento sulla spalla mentre mi visitava e che mi dicesse: "Lei sta dando il meglio signora". Invece niente. Come se fossi già comunque un cadavere. Così me ne guardo bene dal chiedere una conferma.
Un abbraccio
Adriana

lunedì 12 gennaio 2009

Araba fenice


Carissimi
sono risorta dalle mie ceneri come l'Araba Fenice ;-) Ho tagliato quei brutti capelli lanosi e gli ho fatto dare una sfumatura di rosso.
Stamattina - dopo oltre un anno - sono tornata in palestra. Mi ci sono volute quasi due ore per completare il circuito-attrezzi per il quale prima mi bastavano tre quarti d'ora. Ma l'importante è che ce l'ho fatta e che sono determinata a tornarci tre volte alla settimana. Voglio ridare al mio corpo tutta la funzionalità che può permettersi, perché sentirmi come una "vecchia carretta" mi demoralizza.
Un abbraccio
Adriana

venerdì 9 gennaio 2009

Volo in classe turistica

Carissimi
questa volta me la sono presa comoda prima di "risorgere", ma ho avuto bisogno di tempi di recupero più lunghi del solito, perché l'inizio della nuova terapia è andato a sommarsi alla fatica che mi trascinavo dalle feste.
Non voglio spendere troppe parole sulle mie condizioni di salute, perché le sedute con Herceptyn si susseguiranno ogni tre settimane per tutto il 2009, quindi tant'è che ci faccia da subito l'abitudine. Tutto sommato è andata abbastanza bene, anche se in ospedale ho dovuto starci sette ore, di cui quattro con la flebo. E' stata comunque l'occasione per togliermi qualche sassolino dalle scarpe.

"FARE IL MEDICO E' UN MESTIERE DIFFICILE"

"Dottore, non so se si ricorda di me. Ci eravamo sentiti per telefono per un'altra questione, ma nell'occasione le avevo fatto presente che la mia vagina non funzionava più..."
"Sì, sì... mi ricordo. Le avevo suggerito un farmaco..."
"La mia ginecologa mi ha risposto che è del tutto obsoleto e che comunque mai e poi mai mi somministrerebbe estrogeni, visto che prendo il farmaco contrastante. Quindi sto mettendo una crema tra le cui indicazioni c'è appunto l'uso nel corso di chemioterapia... Perché non mi avete informata su questo effetto secondario della chemio e su come fare prevenzione? L'unico avvertimento che ho avuto è stato in merito ai capelli, ma quelli ricrescono. Pelle, denti, occhi, ossa, cuore, fegato, intestino, stomaco... Io sono fatta anche di tutte queste cose e sono stata io ad organizzare le difese di questi organi che possono essere particolarmente colpiti durante la chemio. Ho potuto farlo solo grazie a Internet, perché voi invece non mi avete dato alcun tipo di informazionemediante informazioni trovate su Internet".
"Fare il medico è un mestiere difficile... Non si sa mai chi vuol sapere e chi no. In genere chi viene qui si mette nelle nostre mani, non gli interessa sapere di effetti secondari. Anzi, siccome non sono certi, forse è meglio non parlarne, onde non allarmare il paziente... E' un po' come il bugiardino dei farmaci..."

NOTA per gli amici maltesi: "bugiardino" viene detto da noi il foglietto che accompagna qualunque farmaco e che - esclusivamente per cautela penale da parte delle case farmaceutiche - contiene tutti gli avverimenti di controindicazioni possibili, fino alla morte.

"Dottore, qui non stiamo parlando di bugiardini, ma di prevenzione. Io capisco che questo reparto è oberato di pazienti, vista la fama del suo primario, e voglio credere nella vostra buona fede, ma ciò non toglie che siamo a oncologia, dove i conti con la morte sono più che concreti e quindi dove la qualità di vita - breve o più lunga che sia - diventa estremamente preziosa. Io le voglio anche credere quando dice che la maggior parte dei pazienti preferisce mettersi ciecamente nelle vostre mani, ma mi permetto di farle notare che questo vi ha portato ad una standardizzazione, verso il basso, del paziente. Ormai dipendo da questo reparto da quasi un anno e posso dire di aver avuto ripetute prove di essere sì un paziente, mai una persona".
"Be', ma per questo ci sono psicologi, associazioni..."
"Sono altri campi e personalmente non ne sento alcun bisogno. Io sto parlando di informazione e di prevenzione a livello medico per pazienti oncologici. Il fatto che lei mi risponda demandandomi ad altre... chiamiamole strutture... dimostra che non ha inquadrato il problema. io sono venuta in questo ospedale perché mi era stato assicurato che il primario è uno dei migliori, ma l'ho visto due volte per pochi minuti nel marzo scorso, poi mai più. Quando ho chiesto, mi è stato risposto: non si preoccupi, vede tutte le cartelle cliniche. Non so se è vero, ma mi sembra che voi tre assistenti godiate di un'ampiezza di delega superiore a quanto mi aspettassi. E anche questo, se comunque decido di fidarmi, potrebbe andar bene, se non fosse che lei, dottore, è solo la terza volta consecutiva che la vedo e solo su mia esplicita richiesta, altrimenti sono stata rimpallata di volta in volta a seconda delle file di pazienti. Nel corso di queste visite... una dozzina mi pare... ho sempre avuto l'impressione di essere una faccia nuova, senza una storia che non fosse quella da leggere e da copiare nella cartella clinica, faccenda da sbrigare in pochi minuti, con una visita che occupava anche meno. Una sola volta - ovvio che me la ricordo - mi sono sentita chiedere: Come sta? Benissimo, ho risposto provocatoriamente e la sua collega non ha neppure alzato gli occhi dai fogli che stava compilando".
"Capisco le sue ragioni, ma come le ho detto fare il medico è un mestiere difficile..."
"Senza dubbio, però non tenere il contatto con il paziente può renderlo ancora più difficile. Sto parlando del profilo diagnostico e terapeutico, ovviamente. Facciamo l'esempio di una banale tachicardia indotta da terapia farmacologica: se non so che può essere "secondaria" alla terapia magari mi spavento e la tachicardia diventa doppia. Mi spavento anche di più. E diventa tripla. Ma sono un paziente fiducioso e finalmente ne parlo con lei. Ma a questo punto, dottore, lei per fare una diagnosi dovrà capire 1) se è la terapia; 2) se è un caso di ansia; 3) se c'è un problema cardiaco... con conseguenti analisi e ulteriore stress per il paziente".
"Sì, capisco..."
"Torniamo alla mia vagina. Lei sapeva che la chemio agisce negativamente sulle mucose di qualunque tipo..."
"Sì, ma non è detto..."
"Non sarà detto, ma io volevo sentirmelo dire... Così come avrei voluto sapere che il farmaco che blocca gli estrogeni avrebbe aggravato,
fra le altre sorprese spiacevoli, anche questa della vagina. Capelli sì, vagina no. Mi scusi, ma lo considero un bigottismo... "
"Sì, forse è così... ma i pazienti in genere..."
"Dottore, io credo che un paziente con il cancro debba essere incoraggiato a prendere gusto alla vita nei giorni in cui sta bene e a tollerare quelli in cui sta male. Sicuramente le associazioni possono essere di aiuto in questo, ma è l'informazione medica qui - nel reparto di oncologia - ad essere basilare. Vuole sapere una cosa curiosa? Ho letto che per il mio caso, assimilabile a quelli di vaginismo, trova benificio con i dilatatori. Ne ho parlato con la ginecologa che mi ha risposto di cercare in Internet. Ho scoperto che questo aggeggio, a tutti gli effetti un presidio medico-chirurgico, in Italia non esiste. In Internet arrivano a suggerire verdure varie col preservativo! Devo andare ad alimentare l'anedottica dei Pronto Soccorso?".
"Però torniamo al discorso di prima, la maggioranza dei pazienti si affida completamente a noi, non ci chiede o non vuole tante delucidazioni..."
"Sì, ma questo non vi giustifica a prendere il mestiere come routine..."
"In che senso?"
"Standardizzare i pazienti, appunto. Ad esempio, lei e le sue due colleghe avete mai notato che, a differenza di molti altri, io sono sempre entrata da sola per le visite? Vi siete mai chiesti se ero accompagnata? E, vedendomi sola, vi siete mai domandati se magari poteva venirmi un attacco di tachicardia in piena notte, o di vomito, o uno svenimento e chi poteva soccorrermi o solo rassicurarmi? Date tutto per scontato? Sulla mia cartella clinica c'è scritto che abito a Padova... Nessuno di voi mi ha chiesto con che mezzo arrivo all'ospedale... Se guido io, ad esempio. E se è consigliabile che lo faccia, oppure no. Io credo che la routine e l'urgenza vi abbiano appiattito e che in questo modo vi sentiate leggittimati ad appiattire anche i pazienti, che diventiamo dati e cartelle cliniche".

CONSIDERAZIONI

1) Questa volta la "visita" è durata un'ora, ma vi assicuro che il colloquio è stato nei termini che vi ho detto e con toni del tutto pacati.
2) La caposala è entrata per ben due volte con due pretesti chiaramente indirizzati ad abbreviare la visita, ma il dottore ha respinto gli assalti. Né mi sentivo in colpa verso la coda, visto che aspettavo da quasi un anno per motivare concretamente le mie ragioni.
3) Per la prima volta in tutti questi mesi, l'oncologo è venuto da me mentre facevo la terapia (poco dopo l'inizio e verso la fine), chiedendomi come mi sentivo... con grande stupore delle infermiere e degli altri pazienti. Ciò non mi rallegra, mi rattrista. Avere voce assume un significato solo se incide ANCHE nei diritti di chi non li sa rivendicare, non se porta a percorsi preferenziali o peggio privilegiati.
Posizione idealistica la mia, vero? Però mi fa vivere meglio con me stessa, se non altro per coerenza.
Ammetto che sono entrata in sala chemio già con i piedi sensibilizzati dai sassolini, tolti e da togliere. Così mi è venuto facile il seguito.

VOLO IN CLASSE TURISTICA

Ci sono tre pazienti davanti a me che aspettano di entrare nelle postazioni chemio. Stiamo in piedi, guardando dall'una o dall'altra porta, pronti a prendere la postazione, fra gli slalom delle infermiere nello stretto corridoio. Mica puoi farti fregare il posto restando nella sala di aspetto, nooooo? Qui siamo tutti vigili sul nostro turno, bisogna tenere la postazione, perché non sai mai chi te la può fregare. In un ospedale di paese basta conoscere la cugina del fruttivendolo da cui ti servi perché l'infermiera si illumini alla tua vista. Altrimenti ti dice solo: "SiediTI qua".
Assicurarsi un buon posto è ovviamente un frutto del caso: sala con tv invisibile, inascoltabile e anarchica, oppure un'altra senza questo strumento inutile e rumoroso; poltrone scassa-schiena con poggia piedi, oppure due - dico due - lettini su una trentina di accomodamenti; due poltroncine salotto anni sessanta (stile svedese) senza poggia piedi. A me è toccata una di queste e siccome sapevo che l'avrei avuta lunga ero già maldisposta. Ho detto all'infermiera: "E' come in aereo quando si va in classe turistica per un viaggio di ore...". Ma come si fa qui a seguire i consigli di fare due passi (dura con la flebo), bere molta acqua (già la flebo dà problemi con la pipì) e prendere un'aspirina (basta il resto, grazie). "Che problema hai?" mi chiede l'infermiera. "Mi serve un cuscino perché lo schienale è troppo lontano e non poter appoggiare i piedi su un sostegno per tante ore me li farà gonfiare ". "Io ti posso portare il cuscino per la schiena..." ha replicato con tono suscettibile. "Infermiera, non me la prendo con lei, ma con l'ospedale. Due poltrone che sostituiscano almeno queste non mi sembra una gran spesa..." Gli altri pazienti mi guardavano incuriositi, infine sono un diversivo no?
Miracolo! Ho appena iniziato il flacone di avvio, quando si libera il posto accanto a me. Dribblo uno che si precipita dalla porta d'ingresso, portandomi appresso il trespolo della fleboe, e occupo la poltrona con poggia-piedi. Arriva l'infermiera-flebista: guarda il maschietto sul posto che occupavo prima, sposta lo sguardo su di me. E si inferocisce. "Hai cambiato posto senza dirmelo, ma ti rendi conto? Potevo metterti un farmaco al posto di un altro, perché il tuo cestino era posato sull'altro comodino...". "Non sapevo che ci fosse un numero....". "Infatti non c'è, se tu cambi posto, come faccio a sapere che i farmaci nel cestino sono i tuoi e non di un altro? E' successo proprio l'altro giorno sai?". E' pazzia, ma c'è nel metodo. "Mi dispiace. - rispondo - Ma non avevo pensato a questo inconveniente". "Guarda che queste non sono mica caramelle...". Mi è montata un'ira fonda, fredda. "E lei, infermiera, sta parlando con una donna di quasi sessant'anni, non con una bambina. Quindi se deve darmi delle informazioni lo faccia con rispetto, senza bacchettate sulle dita!". Ha fatto la bocca a "buco di culo di gallina", come dico io, e se l'è messa via. Ma ecco che subito insorge un anzianotto all'altro capo della sala e rivolgendosi a me: "Guardi che noi pazienti dobbiamo essere pazienti". "Noi prima di essere pazienti, siamo persone e dobbiamo esigere rispetto". "Il rispetto va a chi lavora per noi". "E' un rapporto di collaborazione, non di sudditanza". "Lei è una maleducata". "E lei non merita neppure che io prosegua con uno scambio di opinioni".
Passano cinque minuti, torna la stessa infermiera per mettere la flebo a quello che era al mio posto precedente. "Come ti chiami?". "Rossi". "No, il nome di battesimo". "Mario". "Ah, ecco, Mario. Io mi regolo con il nome di battesimo, perché con i cognomi si fa confusione". Chiaro che questa viene da Chioggia, dove tutti si chiamano Boscolo, tanto che anche sull'elenco di telefono ci sono i soprannomi. Ma mica sarà un criterio anche per assegnare i flacomi di chemio... Infatti ammette: "Certo che anche i cognomi a volte si ripetono". GRRRRRRR, bambina, ma usare nome e cognome per un' identificazione prima di infilare un veleno in vena è troppo?
A chiusura del cerchio: il "paziente-paziente" e "non persona" si identifica non solo per la reazione dello stronzo che ha difeso l'infermiera maleducata, ma anche in tutti quelli - praticamente tutti in sala chemio - che chiamano l'infermiera o confidenzialmente per nome (è la cugina del verduriere sotto casa), o signora e signorina. Ma che male c'è a chiamarle infermiere? E' forse disonorevole? Passiamo all'altra mia vicina di poltrona che chiama dottore il volontario solo perché ha il camice bianco? Anche questa vicina era su una poltrona senza poggia-piedi e dopo un po' le facevano male le gambe. La nipote che l'assisteva, seduta su uno sgabellino, ha messo i piedi della zia sulle proprie gambe... volo in classe turistica, no?
Un abbraccio
Adriana

cesta dei gatti 31 dicembre (sera)




Ecco che significa fare gli scemotti nella "cesta dei gatti".
Rinnovo l'abbraccio
Adriana


Sotto la neve pane - 31 dicembre (notte)


Carissimi
ho passato una delle nottate di Capodanno più belle della mia vita :-))))))))))))))
Come me, nemmeno il nostro amico Maggiore Piazza (a proposito, vi ho detto che adesso dobbiamo chiamarlo tenente colonnello?), aveva voglia di gran casini per la notte di San Silvestro, così abbiamo deciso di passarla insieme, qui a casa mia, a modo nostro...
1) A tavola quel tanto che è bastato per la squisita cena preparata dai figli e i loro amici. Loro hanno festeggiato nell'appartamento di Michele, ma ci hanno foraggiato con le varie portate a cui io ho contribuito con la pasta e fagioli e il puré al forno.
2) Stravaccati sui divani e rigorosamente a tv spenta, solo per digerire fra una portata e l'altra.
3) A fare "cesta dei gatti" sul lettone sgranocchiando dolcetti di cioccolata e facendo gli scemi a fotografarci col mio grosso orsacchiotto.

E, meraviglia...., non so bene che ora fosse, ci siamo accorti che fioccava alla grande. Voi sapete quanto io adori la neve e quindi dopo aver tenuto per un pezzo la finestra aperta ho lanciato l'idea di uscire per una passeggiata. "In fondo - ho detto, per sminuire il pericolo di un colpo di freddo - non siamo mica così vecchi. Quanti anni facciamo in due". "Più di un secolo" ha risposto l'imperturbabile Piazza. Al che mi è venuto un attacco di risate da lacrime agli occhi... credevo di non riuscire più a smettere. Piazza mi guardava perplesso... "E' il contesto... - cercavo di spiegare - Io ho fatto una battuta infelice e tu l'hai peggiorata".
Quando mi sono ripresa ho scovato una sciarpa-cappuccio con guanti per me e un berrettone per lui. Mica è stato facile tirarmi fuori dal lettone, perché io mi ero già messa in camicia da notte e bottiglia dell'acqua calda (altrimenti se non si è comodi la "cesta dei gatti" non viene bene).
Siamo riusciti a snidare anche mio figlio Michele, arruolato come fotografo.
E' stata una bellissima passeggiata intorno a casa e attraverso il parco, affondando i piedi nella spessa coltre di neve intatta, in quanto erano ormai tutti a letto.
Un anno che comincia con una nevicata così abbondante - come dice il proverbio, sotto la neve pane - non potrà essere che buono, no?
Io sento che per me sarà così, lo auguro anche a tutti voi.
Un bianco abbraccio
Adriana

Paziente-mail (30-12-2008)

Carissimi
oggi dovevo iniziare la cura con Herceptin, il farmaco "mirato" che dovrebbe andare a scovare le metastasi e indurre le mie difese a sconfiggerle. Una terapia che durerà per tutto il prossimo anno. Ne riparleremo quando sarà il momento.
Oggi dunque dovevo essere all'ospedale, invece sono nuovamente bloccata fino al 5 gennaio.
Ieri sono andata a ritirare i risultati dell'emocromo e i miei globuli bianchi erano piuttosto bassi, quindi ho telefonato all'ospedale per sapere se ciò avrebbe compromesso l'inizio della terapia.

INFERMIERA (capo sala): "Ma lei quando dovrebbe cominciare?"
IO: "Domani".
INFERMIERA: "Non mi risulta. Lei è segnata per il 13 gennaio".
IO: "Questo prima che vi telefonassi e vi dicessi che avevo avuto dell'ecocardio prima del previsto. Quindi mi avete detto che potevo venire domani".
INFERMIERA: "Non so che dirle, il dottore è andato in ferie e ha tirato un segno sui nomi delle pazienti che non ritiene urgenti".
IO: "Non mi avete mica avvertita...".
INFERMIERA: "Ma lei può venire ugualmente, solo che non ci sarà lo stesso oncologo".
IO: "Preferirei evitare questi continui cambi di mano..."
INFERMIERA: "Allora venga il 5 gennaio, quando rientra il dottore dalle ferie".
IO: "Devo rifare l'emocromo?"
INFERMIERA: "Mica serve l'emocromo per l'Herceptin"
IO: "Ma me l'ha prescritto l'oncologo..."
INFERMIERA: "Allora lei lo rifaccia per suo scrupolo..."

UN MIO SCRUPOLOOOOO?????? E' un nuovo metodo autodiagnostico?
Io ho scelto questo ospedale scomodo da raggiungere rispetto a quello cittadino solo perché mi era stato detto che sarei stata seguita da un oncologo molto prestigioso, capace e avanzato nell'azzeccare le terapie. In dieci mesi io quest'oncologo l'ho visto solo le prime due volte, all'inizio delle terapie, dopo ho solo fatto il giro dei suoi tre assistenti. Delle due dottoresse spero che abbiate conservato memoria sul loro modo di fare, infine avevo chiesto espressamente del terzo che mi sembrava il meno peggio... invece questo tira un segno sul mio nome in lista e parte per le ferie. Io (come gli altri) non sono una paziente, ma una cartella clinica che oltretutto passa di mano in mano secondo le necessità. "Non si preoccupi che il primario le vede comunque tutte" mi è stato detto. Sarà da crederci? In questo caso non mi posso neppure affidare al messaggio di "mail ricevuta". E, al di là di questo, perché non risolviamo tutto con questionari gestiti dalla capo sala? Fare emocromo: sì, no, non so. Data inizio Herceptin: da tre a sei settimane dalla fine della radio. Medico curante: dipende. Ecc.
A questo punto gli auguri di Buon Anno mi spettano non in modo formale, visto l'anno che vado a trascorrere...
Auguri a tutti voi
Adriana

domenica 4 gennaio 2009

...mi sono spupazzata


Carissimi
ho festeggiato il primo giorno del 2009 con una passeggiata alla Certosa, dove ho trovato ad attendermi oltre che il mio amico albero anche questo magnifico pupazzo di neve. Insieme a lui, auguro a tutti un anno di luce.
Un abbraccio
Adriana

ps. Oggi, lunedì, inizio la nuova terapia. FORSE per qualche giorno non ci sentiremo. Vi racconterò tutto appena possibile.