mercoledì 28 gennaio 2009

Dove si curano quelli con la faccia da ricchi?

Carissimi,
eccomi qui. Ieri ho fatto la seconda terapia, per la quale nutrivo più timori rispetto alla prima, perché pare fosse quella più decisiva per capire come l'avrebbe accolta il mio corpo. Invece sono piuttosto soddisfatta: sono passata dalla parainfluenza naturale della scorsa settimana a quella indotta dal farmaco. Quindi solite cose: stanchezza, dolori articolari, un po' di febbre. Ma meno abbattuta, perché certi altri problemi si sono chiariti. Siccome questo è il periodo in cui un mucchio di gente sta così - anzi anche ben peggio a causa dell'Australiana - mi sento "normalizzata". Mi sento pure fortunata rispetto ad altri pazienti sottoposti al mio stesso farmaco e che ieri parlavano di 38-39 di febbre, sfinimento, palpitazioni e chi più ne ha più ne metta.
Ho anche riferito all'oncologo che la cosa più curiosa accadutami durante la prima somministrazione sono stati due giorni di fame tormentosa, che aveva cominciato a scatenarsi già dopo un'ora dall'inizio della flebo... non ricordo se ve ne avevo scritto. I miei sospetti erano caduti sul cortisone e l'oncologo me l'ha confermato, perché ora me ne fanno una dose doppia rispetto a quello di quando facevo la chemio. Probabilmente era andato a disturbare l'area del cervello che presiede alla sazietà. Io stessa capivo che si trattava di "falsa fame" e quindi per non finire ingolfata ho alleviato questo tormento che mi faceva perfino digrignare i denti mettendomi a portata di mano ortaggi crudi e duri da sgranocchiare (carote, finocchi e rapanelli). Di grande aiuto anche chewing alla menta senza zucchero. Passate l'informazione se conoscete qualche paziente a cui potrebbe essere utile.

Chiudo questo bollettino sulla mia salute, perché non tutti avranno il tempo o l'interesse di leggere le mie "cronache" seguenti, con un ringraziamento per quanti hanno partecipato - facendomi visita durante le feste natalizie - all'iniziativa pro Emergency "Tre miei libri a scelta per 10 euro". E' stata raccolta la più che decorosa cifra di 250 euro che oggi (non sto a spiegarvi i complicati motivi del ritardo) ho provveduto a versare.

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO

Capisco che sono arrivata ad un punto in cui mi devo sorvegliare attentamente, anche se so che 30 anni di mestiere mi hanno ben educata al miglior grado di obiettività possibile; tuttavia, nel raccontare il fatti, c'è sempre il rischio constatato in molti miei colleghi, di scivolare progressivamente col tempo a) dal sagace e benevolo sorriso dell'umorismo e dell'autoironia, b) alla pungente ironia rivolta solo agli altri, c)all'acidità zitellesca, d) al feroce sarcasmo, al volgare livore, e) alla rabbia dissennata. Più sfumature intermedie e variamente mescolate da cui nessuno è esente finché non raggiunge l'Illuminazione. Conscia che pure con studi zen non sono giunta a questa meta, spero di non darvi l'impressione di essere arrivata al punto c), con la seguente cronaca che vi dipinge le ore che ho passato ieri in ospedale, dalle 11.30 alle 16.30 (fino alle 13 per la visita; mezz'ora in attesa di una poltrona in sala chemio; il resto sotto flebo con annessi e connessi)... sempre meno delle 7 ore dell'ultima volta, in cui la flebo è durata oltre quattro ore. Insomma, tante sono le ore ed inevitabilmente da passare con "varia umanità".

Banco accettazione.
Non è il personale che manca, ma l'organizzazione. Nel senso che le tre o quattro persone ammassate dietro al banco sono tenute a fare di tutto e secondo un "modus operandi" del tutto individuale. C'è un solo computer, ma non ho ancora capito a cosa serva, visto che poi la base è cartacea, esempio cartelle cliniche impilate in modo misterioso, farcite di annotazioni su post it incollati sulla plastichina trasparente esterna, a cui vengono affidate numeri di telefono, indicazioni a quale oncologo devono essere dirottate, entro che data richiamare il paziente, ecc. Ovviamente gestite a più mani e secondo solerzia, precisione o fantasia delle stesse. Che, in tutta onestà, direi che non vengono a mancare, se non con grande spreco di energia.
Poiché il paziente non viene accettato su appuntamento, ma solo genericamente dalle 7.30 "in là", non ho ancora avuto modo di capire, ed è passato quasi un anno di frequentazione, se sia meglio presentarsi alle 8 (col risultato di aspettare in prima posizione i medici che comunque non arrivano prima delle 10-11 perché hanno anche i pazienti ricoverati da seguire); se è meglio alle 11 (ma a quel punto si sono ammassati i pazienti del teorico primo turno con quelli del secondo); se è meglio alle 12, ma lì si va ad incastrare la pausa pranzo dei medici. Insomma è meglio abbandonarsi alla pazienza della completa casualità. Ma la casualità fa incorrere anche in un altro rischio. Al banco di accettazione - l'ho scoperto dopo molto tempo dopo - la cartella clinica non è assegnata ad un "tuo" oncologo, col suo nome scritto sopra, ma al "chi c'è, c'è", eccetto per quelli per cui il primario raccomanda la propria presenza. Cioè i neofiti o i cronici. Infatti quando arrivi e dici: "Io sono Reginato, cartella clinica n..., sono qui per la terapia", mi consegnano un post it con su scritto, ad esempio, 12 (posizione di attesa) rosso. Ci sono anche il verde, e il giallo (mi pare), cioè il numero corrisponde alla privacy di chiamata del paziente e il colore alla privacy di prestazione dell'oncologo, in quanto nessuno ti chiede se preferisci l'uno o l'altro, semplicemente ti sbattono dove la fila è più breve. Col tempo abbiamo capito che il colore blu è quello del primario e guardiamo tutti con invidia quelli che vengono chiamati con questo colore. Col tempo abbiamo capito che potevamo anche - al banco di accettazione - esprimere una preferenza di nome-colore, indipendentemente dalla fila, per sentirsi invariabilmente rispondere: "Se ha la pazienza di aspettare". Al che uno davanti a me si è messo a ghignare e a risposto: "Qui non facciamo altro che aspettare". Infatti, io ho chiesto espressamente dell'oncologo con cui - pur con la mia rampogna - mi sembrava di aver stabilito un contatto, dopo la terza volta che l'incrociavo. "Scenderei a prendere un caffé - ho detto con molto garbo - se mi dice quanti pazienti ho davanti". "Uno solo, ti conviene aspettare". Ho aspettato un'ora e mezza e ho fatto esercizio zen dicendomi: " Anch'io l'ultima volta ho fatto aspettare più del dovuto quelli che erano dietro di me perché dovevo sfogarmi, ora non mi posso lagnare se l'oncologo è più zelante!"
In verità la visita è rientrata nei parametri consueti. O è timido (dicono così anche del primario); o l'ho più spaventato che istruito; o continua a comportarsi da cortese macina-pazienti. Le due colleghe, invece, le vedresti bene ad agitare le chiavi in possesso delle secondine. O a prenderti le impronte digitali.

LA SAGRA DELLE CHIACCHIERE

E' difficile riuscire a leggere nella sala di attesa.
Il via vai te lo devi aspettare, la promiscuità di sternuti e tosse anche; su chi ha inventato i "posti a sedere per comunità" e poi li ha rifilati nei reparti ospedalieri dove i pazienti sono già torturati per lunghe ore di attesa dai propri mali, posso solo dire che Torquemada mi fa apprezzare il detto (credo di Mark Twain): "Meglio i cattivi che gli imbecilli, almeno i primi ogni tanto si riposano".
Ma è vero, sto diventando acida come una zitella: in realtà la sala d'attesa è ornata di quadri gradi quadri ad olio (e riparmio il giudizio sulla qualità dell'artista che in nessun altro posto li avrebbe potuti donare), nonché di un numero esorbitante di piante e di bonsai poste sul già esiguo banco dell'accettazione, quindi rendendo difficile il contatto. Siccome non posso pensare alla totale imbecillità nella gestione di questo reparto, suppongo che il televisore megagalattico appeso ad una parete e che mai ho visto acceso (forse una volta e dai pochi beneficiati nel braccio corto della L in cui si snoda la stanza) sia il regalo di un paziente che si è creduto guarito dopo un paio d'anni di cure e che adesso era lì magari seduto vicino a me dopo 12 anni. E già, perché continuano a dire che di cancro si guarisce, ma nessuno ti dice per quanto. Nelle mie trasmigrazioni fra chemio e radio ho incontrato gente in trattamento come me, ma molta di più in recidiva, chiamiamola in "convivenza" con il cancro. Quindi in convivenza con la struttura e sempre più grata a quella struttura. Giustamente. Ma anche sempre meno critica nei confronti del servizio - extraterapeutico, non umano - che offre. Dopo 8, 10, 13 anni che hai il cancro cosa puoi chiedere se non: "Continua a farmi vivere?". Che ti frega delle attese, dell'arroganza, delle scomodità, dei silenzi, della gentilezza data goccia a goccia, se non per avere quella vita "goccia a goccia"?

Dialoghi nella stanza di attesa, quasi tutti in dialetto, ma io non lo lo scrivere.
"Lei che numero ha?"
"Ho il blu, perché vado dal primario"
Venerazione.
"Io - ma è una moglie che parla, perché il marito è lì con l'aria dello sconfitto negli occhi - ho il giallo, ma mi hanno detto che semmai potro vedere il primario. Ma lei come mai va dal primario? Perché sono ormai tre anni che mi curo e adesso mi vuole vedere per un controllo"... trapela il suo orgoglio. Ma un altro la vuole battere: "Se è per questo anch'io ormai vado solo dal primario, sono in cura da lui da 12 anni".
Attimo di abbattimento. Il marito avvilito si alza ed esce, senza una parola. "E' sempre così stanco...". "Non lo dica a me - interviene un'altra - ma io ho deciso: faccio solo quello che mi sento". "Anch'io - conferma un'altra ancora - ma se solo se non c'è niente da fare, altrimenti non mi tiro indietro". Arriva una signora in carrozzina, accompagnata dalla figlia. Si aggrappano alle riviste sgualcite. La madre vuole un libro di cucina regalato da un numero di rivista tre mesi fa. La figlia annota scrupolosamente e le assicura che chiederà informazioni. Perché questo atteggiamento amorevole, che già vedo qui dentro, puzza di crisantemi? Per questo non voglio che nessuno mi accompagni? Preferisco camminare sui sassi che sui petali sparsi. Arriva un ex compagna di scuola della figlia amorevole. Si riconoscono, si abbracciano con affetto. Lei, la compagna, sembra più giovane, ma è chiaramente una paziente. E' sui 40 anni, portati da ragazzina, visto che dichiara che sua figlia ha 21 anni. Dapprima noto che, pur camminando molto eretta, e in un certo modo flessuosa, ha le anche troppo rigide. Per questo il petto è spinto così in fuori. Poi ascolto: è stata operata al seno 15 anni fa. La metastasi ha attaccato prima le ossa del bacino. Poi ha avuto un incidente con un colpo di frusta e questo ha precipitato le cose. Ma ride e dice: "Sono ancora qui e sento che posso restarci ancora". "Questo è vero, - aggiunge un altro che ha una pancia chiaramente piena liquido - mi accontento di se vado avanti così. Mica è male..."

Dialoghi nella stanza chemio
Posti a caso, secondo la disponibilità, come raccontavo l'altra volta. Due soli i lettini, altre poltrone scomodissime, due senza poggiapiedi. Stavolta, onde evitare questioni, aspetto che se ne liberi una col poggiapiedi. Arriva una donna di età indefinibile: 30, 40, 50. Ha un ventre enorme, chiaramente piena di liquido e paziente pressoché terminale. Cammina a fatica, con un bastone, e sostenuta da una parente. E ha bisogno di camminare perché spesso durante la flebo deve andare ad urinare. Ma cazzo, almeno uno di quei carrellini con le ruote e il manubrio non può essere messo a dospisizione, visto che in una normale carrozzina non ci entrerebbe? No, le tocca pure sorbirsi la poltrona, dove neppure un cuscino dietro la schiena le dà sollievo all'ingombro della pancia, con il diaframma che spinto verso l'alto le impedisce la respirazione. Si lamenta, povera crista, ed ha ragione. Infine la fanno uscire. La ritrovo ore dopo sulla stretta barella incassata al posto dell'armadio a muro nel corridoietto di servizio delle infermiere dove io vado a farmi mettere e togliere l'ago nel port.
Nel frattempo mi sono cuccata la signora apparentemente in florida salute (ma cosa le mettono in vena?) che dall'altra stanza dove bombarda una tv senza che nessuno segua un programma si è voluta spostare in quest'altra, sedendosi vicino a me, perché all'altro angolo della stanza c'era sul lettino comodo, dove ci sarebbe dovuta stare quella col pancione, un'altra pimpante amica - gialla come un crisantemo - con cui voleva intrattenere conversazione. Naturalmente ha sempre parlato, da un capo all'altro della stanza, solo quella che aveva più fiato. Per soli tre quarti d'ora per fortuna, perché era alla fine della chemio. L'altra non rispondeva anche perché fose era stata colpita - come me la vostra scorsa - all'area della sazietà, in quanto non ha fatto che mangiare prima pane e uva e poi pane con le noci. In tutta onestà si tupiva che i suoi trigliceridi fossero alle stelle, ma mi sembra irrilevante rispetto allo stato del suo fegato (entrambe comunque avevano abbandonato le tette da un pezzo). La prima, era così insabile nel suo esternare un mare di cazzate, che ha chiesto ottenuto che abbassassero la musica classica della filodiffusione, adducendo che le batteva sul cervello. Senza tenere conto che stava spolpando quello degli altri. Ma non di tutti, naturalmente. C'è chi si è unito alla conversazione parlando dei piatti preferiti e disquisendo se fosse meglio lo spezzatino d'asino o di cavallo. Io, per sfiga mia, stavo disperatamente cercando di concentrami su "Le metamorfosi" di Apuleio (che vi assicuro libro piacevolissimo) ed ero proprio al punto in cui lo sfigato viene tramutato in asino e comincia subirne di tutti i colori (ciò mi ricorda la sala di attesa). Quindi mezzo intontita dal valium, e forse non centravano i farmaci, mi stava venendo il vomito a sentir parlare di queste bestie su quando era meglio macellarle, quali le parti migliori, e come cucinarle.

MA DOVE VANNO A CURARSI I RICCHI?

Riflessione di ieri.
Se avessi avuto l'aspirazione a fare la "scalatrice sociale", credo che anche solo grazie alla mia professione qualche gradino in più l'avrei fatto. Io invece ho scelto l'amicizia disinteressata, senza mai pormi un problema di "classe". Però una pulce nell'orecchio mi è stata posta da un'amica di questa mailing, quando ha comentato il mio racconto sullo sfogo con l'oncologo dicendomi: "Ma Berlusconi dove è andato a farsi curare il suo cancro?". Onestamente non lo so. Ma suppongo che per i super ricchi e potenti come lui ci siano circuiti a noi inimmaginabili, quin di neppure mi pongo il problema. Tuttavia, insistendo sul fatto che non voglio passare per "classista", ma essendo ormai da un anno inserita in questo "circuito", davvero mi chiedo dove vadano a curarsi non dico i Berlusconi o, al limite, l'alta borghesia. Ma la medio o la medio.alta, dove va? Intendo quelle donne che vedresti sempre bene anche col berretto da sci calcato in testa con i capelli mesciati in giusta misura che escono aggraziati giusto intorno al collo o alle guance; quelle per le quali le rughe sono segni di espressione su un viso vivace; quelle con la pelliccia e le scarpe la ginnastica; quelle che adorano la madre ma non sono mai pallide; quelle che il taglio corto le fa sbarazzine e sentire come nuove; quelle che parlano dialetto padovano come se fosse la Divina Commedia; quelle che se sono sovrappeso è perché si ingozzano di bigné nella pasticceria di moda ma non di pasta fatta in casa; quelle che hanno avuto l'appendicite e un'influenza clamorosa... E i loro compagni? Quelli con i capelli né lunghi né corti, né troppo curati nel taglio perché farebbe troppo... Quelli col maglioncino firmato e i pantaloni lisi di velluto a coste; quelli con l'eterna sciarpina al collo anche d'estate; quelli con gli occhialetti a mezzaluna anche se non servono; quelli che vanno ancora sulle piste nere da sci come quando avevano vent'anni di meno; quelli che parlano padovano come se avesseri i coglioni in bocca; quelli che invece che camminare con spalle incurvate in avanti hanno il basso bacino sparato in fuori...
Ma dove vanno a curarsi dal cancro quelli che per passare le tante ore di attesa (ma forse non è il caso loro) hanno fra le mani un libro?
Io vedo intorno a me pazienti "nazional-popolari", al massimo colgo il sopraciglio arrogante e condiscendente della piccola commerciante, o il fare sbrigativo dell'ex impiegato alle ufficio imposte, nella più esecrabile delle ipotesi. Ma in genere vedo gente come e voi, più o meno simpatica, invadente e acculturata (questo magari meno) come me e voi. Ma dove sono quest'altri? Quelli che stanno fra noi e i veri privilegiati? Possibile che sono l'unica bestia rara ad usare sia il "lei" che la lingua italiana? Ma non è neppure questo che mi preoccupa, se sono certa di essere curata comunque bene e con i riguardi che mi spettano. Ora invece mi sta venendo il sospetto che, trascinata da un'onda che non ho saputo gestire - forse perché da sola, forse perché non consigliata - mi sono infilata infilata in un "girone" che forse non coincide con il meglio che potevo permettermi. E mi sento colpevole nel pensare questo, perché nonstante le critiche, voglio ancora pensare che il Veneto sia un centro di eccellenza per la medicina, però mi pungola anche questa curiosità: dove sono quelli diversi da me? Dove si sono curati, fra i morti più recenti, non dico Paul Newman o Mino Reitano? O, più banalmente, il professore universitario? Mica che loro siano finiti meglio di me... mi punage solo la curiosità di sapere se ci sono strutture sconosciute a cui loro accedono e io no. Dove sono, e sicuramente ci sono, posti in cui - comunque ti toccherà morire - ma almeno su una poltrona col poggiedi. Vuoi vedere che esiste una quarta dimesione per curarsi (e su una quinta o una sesta non ho dubbi), ma di cui io non conosco l'esistenza? Dove si arriva solo per passaparola fra quelli del "giro giusto"?
Ancora. Dove sono i giovani? Intendo dire quelli intorno ai 40. Eppure si sente parlare di molti giovani, e giovanissimi, malati di cancro. Ma muoiono così in fretta da non riuscire neppure a vederli nelle strutture di cura? O anche per loro c'è un altro "circuito"?
E per noi, non più giovani, non con la faccia da ricchi, senza un briciolo di potere c'è solo la via della "standardizzazione", della "sperimentazione", dell' "accondiscendenza"? Siamo solo numero da statistica - nel bene e nel male - mentre gli altri assurgono a "casi" e sfide mediche?
"Ho ripreso ad andare in palestra" ho detto all'oncologo. Non ha neppure alzato la testa dalle scartoffie per rispondermi. Mi sarebbero bastati un sorriso o una botta d'incoraggiamento sulla spalla mentre mi visitava e che mi dicesse: "Lei sta dando il meglio signora". Invece niente. Come se fossi già comunque un cadavere. Così me ne guardo bene dal chiedere una conferma.
Un abbraccio
Adriana

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